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Un'ottantina di persone hanno seguito mercoledì 16 giugno al Centro cardinal Ferrari di Como l'iniziativa organizzata dal Centro servizi per il volontariato, dalle Acli e da Questa generazione nell'ambito del progetto Oltre le mura. Verso percorsi di inclusione sociale, con il contributo di Fondazione Cariplo e il patrocinio del Comune di Como assessorato ai Servizi sociali. Relatori dell’incontro sono stati Lucia Castellano, direttrice del penitenziario di Bollate, e Cecco Bellosi, direttore educativo della comunità Il Gabbiano, moderati dall'avvocato penalista Walter Gatti. La serata si è aperta con un intervento di Lucia Castellano finalizzato a chiarire la propria visione di un termine usato ed abusato in ambito di esecuzione penale: il trattamento del detenuto. Talora il significato di questo termine secondo la relatrice rischia di essere ridotto ad un'utopia positivista o ad una pietosa bugia. La visione della pena e del sistema penale della Costituzione ed il disegno della riforma del 1975 (Legge Gozzini) prevedono un carcere «le cui porte si aprono gradualmente per consentire al condannato di guadagnarsi la libertà», preparando quindi l'uscita da quel «tempio della legalità», che coniugando responsabilità e libertà persegue la rieducazione del condannato. Le ragioni per cui il dettato normativo non viene oggi rispettato in Italia, sono da ricercare, secondo la direttrice, non tanto in ragioni tecniche e organizzative (mancanza di organico, strutture obsolete) quanto in un divario culturale tant'è che, anche nei mesi immediatamente successivi all'ultimo indulto con una la popolazione carceraria notevolmente sotto la capienza massima delle carceri italiane, non si sono attuate strategie realmente tese alla rieducazione. Bollate, la seconda Casa di reclusione di Milano, è stata aperta nel 2000 ed ha da subito investito sul trattamento avanzato, accogliendo solo detenuti comuni selezionati: gli ospiti scelgono di scontare la propria pena a Bollate, non sono eccessivamente pericolosi (viene valutata la pericolosità attuale e non la gravità del reato) ed hanno un fine pena che consente di lavorare sul reinserimento (minimo quattro anni). I pilastri del modello di Bollate sono tre: il clima interno (celle aperte tutto il giorno, possibilità di movimento e di autorganizzazione), le opportunità (di formazione, studio, lavoro per tutti i detenuti), l'esterno (l'utilizzo di tutti gli strumenti previsti dalla legge per favorire e preparare la riconquista della libertà per i detenuti). Dopo dieci anni quella di Bollate è ancora considerata una sperimentazione ed una eccezione: “l'isola felice”. Nel sentire comune, spesso profondamente influenzato da una cultura custodialista, quello di Bollate rischia di non essere nemmeno considerato un carcere. Questo perché, spiega Castellano, se manca l'afflittività aggiuntiva (rispetto a quella stabilita dalla legge con la privazione della libertà), spesso ampiamente presente nelle carceri italiane, non c'è la pena. A Bollate, garantisce la direttrice, manca “solo” la libertà, così come previsto dalla legge. Cecco Bellosi ha portato l'attenzione della platea su quell'ampia fascia di popolazione carceraria, definita da Castellano gli occupanti abusivi del carcere: tossicodipendenti in carcere non per reati strumentali, ma per la loro stessa dipendenza e persone presenti sul territorio nazionale in modo clandestino. Sono 10 mila persone, sparse nelle carceri di tutta Italia, «rese colpevoli dalla Bossi-Fini e dalla Fini-Giovanardi». Sono ospiti di un sistema carcerario che non sa «prendersi cura, né avere cura delle persone malate che reclude». Una realtà davanti alla quale, chi gestisce comunità che possono rappresentare un'alternativa al carcere, rischia di sentirsi «come un bambino che con un secchiello cerca di svuotare il mare». Per scuotere l'amministrazione penitenziaria, che, più di ogni altra pubblica amministrazione, secondo i relatori, chiede cambiamenti radicali ai propri interlocutori senza mai saper fare autocritica, per tradurre in realtà la rivoluzione culturale che secondo il legislatore avrebbe dovuto trasformare la reclusione italiana negli anni 70, è necessario che la società civile consideri il carcere come proprio ambito di azione, che vi entri, e che non lo faccia in punta di piedi. È necessario che la società accompagni il carcere a sperimentare scelte e azioni di cambiamento, per rompere la consuetudine di abitudini e pratiche che si è prodotta nel tempo, ma non ha alcun mandato normativo. [Laura Molinari per ecoinformazioni]

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Presenta per A.G.e D. avv. Gianfranco Procopio
Libertà di espressione ed opinione sul web: Facebook, Google
Relatore: Giuseppe D’Elia, prof. associato di Diritto Costituzionale, Università Insubria. 
COMO – Biblioteca Comunale - Piazzetta Lucati n. 1
Associazione Giustizia e Democrazia
via Indipendenza n. 27 – 22100 COMO - tel. 031.240800 – fax 031.2757218
Eventi formativi Accreditati dal Consiglio Nazionale Forense per l’anno 2010
3 crediti formativi per evento

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