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Che cos’è il Trattamento Sanitario Obbligatorio e perché bisogna parlare dei suoi abusi

19 Agosto 2022 13 min lettura

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Che cos’è il Trattamento Sanitario Obbligatorio e perché bisogna parlare dei suoi abusi

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di Giuseppe Luca Scaffidi

Il 12 luglio la Corte di Cassazione ha pronunciato la sentenza che, dopo sette anni, ha posto fine alla travagliata vicenda di Andrea Soldi, il 45enne torinese che, il 5 agosto del 2015, morì durante l’esecuzione di un Trattamento sanitario obbligatorio (TSO). La Suprema Corte ha confermato le condanne di 18 mesi inflitte in primo e in secondo grado ai tre vigili urbani e allo psichiatra Pier Carlo Della Porta – ossia il personale che, quel giorno, si occupò dell’esecuzione del trattamento. 

Andrea non aveva mai manifestato forme di violenza, era ben voluto dalle persone che gli stavano vicino e trascorreva la maggior parte del suo tempo seduto su una panchina nei giardini pubblici di Piazza Umbria, nel centro di Torino, il suo posto del cuore. Quella stessa panchina da cui non voleva alzarsi quando, quel pomeriggio, fu prelevato da tre vigili urbani che, stanchi dei continui rifiuti, lo strinsero al collo con una manovra per immobilizzarlo e convincerlo a seguirli in ospedale. Buttato a terra con la faccia sul selciato, ammanettato a pancia in giù e caricato su una barella, fu trascinato di forza su un’ambulanza, trovando la morte per una grave insufficienza respiratoria.

Negli anni, Andrea Soldi è diventato un simbolo involontario della lotta contro gli abusi e le violenze psichiatriche: il suo decesso ha contribuito a riaccendere l’attenzione su una procedura che presenta diverse zone d’ombra e che, in più di un’occasione, è sfociata in risvolti tragici. Quello di Soldi, purtroppo, non è un caso isolato; il 2015, infatti, fu un annus horribilis dal punto di vista dei decessi sopraggiunti durante l’esecuzione dei TSO: pochi mesi prima di Andrea, a giugno, Massimiliano Malzone, un 39enne di Montecorice, in provincia di Salerno, perse la vita durante un TSO a causa dei molti neurolettici che gli furono somministrati durante il ricovero – in quell’occasione, l’uomo si trovava in SPDC (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura), ossia l’unità di ricovero dei reparti di Psichiatria. 

Il 29 luglio una sorte simile toccò a Mauro Guerra, 32enne di Carmignano di Sant’Urbano, in provincia di Padova, che fu ucciso con un colpo di pistola dal comandante dei Carabinieri Marco Pegoraro al culmine di un lungo – e discusso – inseguimento, documentato in un video diffuso pubblicamente pochi giorni dopo l’accaduto, durante una puntata Chi l’ha Visto?. Ai tempi il caso Guerra fece parecchio discutere anche per via delle tante ambiguità che interessarono la procedura, caratterizzate da un abuso di discrezionalità senza precedenti: Pegoraro, infatti, scelse di non seguire il percorso tracciato dalla legge 180 – secondo cui il TSO deve essere disposto con provvedimento del Sindaco, in qualità di massima autorità sanitaria del Comune di residenza o del Comune dove la persona si trova momentaneamente, dietro proposta motivata di due medici  – e decise di affidarsi unicamente al proprio arbitrio, auto-attribuendosi la facoltà di dare inizio all’esecuzione del trattamento sulla base di una semplice percezione e in assenza di qualsiasi accertamento da parte del personale sanitario. 

Quel giorno, Guerra – che aveva svolto il servizio ausiliario e stava svolgendo un tirocinio per diventare commercialista – si era recato in caserma per comunicare l’intenzione di organizzare una fiaccolata pubblica contro i musulmani (le indagini hanno rilevato che, poche ore prima, l’uomo aveva appreso una notizia, rivelatasi falsa, secondo cui alcuni richiedenti asilo avevano deciso di rifiutare, in segno di protesta, il cibo che gli era stato offerto all’interno di un centro di accoglienza), mostrando agli agenti alcuni disegni che Pegoraro, per qualche motivo, interpretò come gli indizi di una follia da sedare il prima possibile. 

Per farlo, in un primo momento il comandante provò a convincerlo a rimanere in caserma; successivamente, davanti al rifiuto (del tutto legittimo) opposto da Guerra alla richiesta, dispose una vera e propria azione militare dentro casa sua. Il resto della storia è cosa nota: l’inseguimento nei campi dopo il fallimento delle trattative fuori dall’abitazione, la reazione di Guerra al tentativo di un agente di ammanettarlo e, infine, il proiettile che Pegoraro esplose – a sua detta – per difendere il collega dallo strapotere fisico di quel ragazzo troppo più forte di lui, che finì per perforargli il polmone e lo stomaco, provocandogli un’emorragia che si rivelò fatale. 

Casi come quelli di Soldi, Malzone e Guerra hanno avuto il merito di riportare al centro del dibattito pubblico il tema delle prevaricazioni e dei soprusi che, in casi come questi, inquinano la corretta esecuzione dei TSO e finiscono per calpestare quei diritti che, più di quarant’anni fa, la legge Basaglia ha restituito alle persone in sofferenza psichica. Hanno inoltre contribuito ad associare questa procedura a una logica estremamente repressiva, all’insegna della contenzione e della prevaricazione, che si pone in netta antitesi con lo spirito e la cultura psichiatrica in cui questa tipologia di intervento sanitario ha visto la luce.  

“Il TSO è la parte integrante della legge 180, ossia la norma che ha restituito i diritti costituzionali a un popolo di cittadini che ne era privo: i cosiddetti ‘matti’”, spiega a Valigia Blu lo psichiatra Peppe Dell’Acqua, direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste per 17 anni e protagonista, insieme a Franco Basaglia, di quella rivoluzione che, nel 1978, sfociò nella chiusura degli ospedali psichiatrici, abbandonando il ruolo di conservazione sociale e politica che il movimento Psichiatria democratica, importando in Italia la grande lezione dell’Anti-psychiatry britannica, associava a queste strutture. “La legge Basaglia ha idealmente chiuso questo capitolo, stabilendo che tutti i cittadini italiani godono di un diritto inalienabile alla cura”. 

Mantenendo fermi questi principi, il TSO avrebbe dovuto porre fine all’impiego di quei metodi  repressivi e di contenzione che avevano rappresentato il cuore della precedente legge n. 36 del 1904: una normativa di stampo repressivo che, enfatizzando all’estremo l’elemento della pericolosità sociale, concepiva il malato psichiatrico non come un soggetto di diritto, ma come una minaccia da cui lo Stato avrebbe dovuto difendersi in maniera preventiva. 

"La legge Basaglia fu adottata per ribaltare questo paradigma ed evidenziare, finalmente, la necessità di una presa in carico della persona da parte dello Stato; una presa in carico da realizzare attraverso un incontro autentico tra paziente e terapeuta, in cui l’accoglienza, l’ascolto reciproco e il “sentire l’altro” avrebbero dovuto rappresentare la premessa per una collaborazione autenticamente attiva”, spiega Dell’Acqua. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare analizzando tragici episodi di cronaca come quello di Soldi, quindi, il TSO è quanto di più lontano possa esistere da un mandato d’arresto: è un provvedimento che si rifà al diritto alla salute e all’obbligo, da parte dello Stato, di curare un cittadino che per tanti motivi non è in grado di cogliere la necessità della cura.

Il problema, secondo Dell’Acqua, è che quella cultura di rottura che si è costruita con molta difficoltà attraverso il TSO è stata insabbiata dall’atteggiamento retrogrado di istituzioni, addetti ai lavori e psichiatrie poco disposte ad allinearsi ai principi innovativi delineati dalla legge Basaglia: «Le accademie psichiatriche hanno continuato a pensare che il TSO fosse un semplice sostituto nominalistico del ricovero coatto – quello che vigeva ai tempi della legge n. 36 del 1904, ndr – quando in realtà il quadro di riferimento è completamente differente: nel primo caso, infatti, parliamo di un intervento di cura per il cittadino, tant’è che è il sindaco a firmare l’eventuale ordinanza in seguito alla richiesta motivata di due medici; prima del 1978, invece, lo Stato agiva nei confronti del malato in un’ottica eminentemente difensiva, volta a contenere la sua presunta “pericolosità sociale” attraverso un’azione di pubblica sicurezza ordinata dal questore che, di fatto, finiva per assumere i contorni di un ordine di cattura di cattura in piena regola”. 

Di conseguenza, mentre la legge Basaglia spostava lo sguardo in avanti verso le cure, i diritti da restituire e le nuove modalità da adottare per interrogarci sulla natura della malattia mentale, le psichiatrie dominanti hanno continuato a mantenere fede al vecchio indirizzo, agendo come se lo sconvolgimento del 1978 non fosse mai stato realizzato. Un vuoto conoscitivo che, sostiene Dell’Acqua, accomuna anche tantissimi aspiranti psicologi: “Gli studenti non sanno quasi nulla della legge 180. Ancora oggi, a più di quarant’anni dalla sua entrata in vigore, ricevo tantissime richieste da parte di ragazzi e ragazze che frequentano l’università: mi chiedono di concordare una telefonata o un incontro per parlare un paio d’ore della Basaglia, dato che il suo approfondimento è fortemente sottostimato dal loro piano di studi”.

Se gli equivoci relativi al TSO hanno riguardato prima di tutto il mondo accademico, la confusione e le incertezze rappresentano la normalità anche per quelle stesse figure che dovrebbero assicurarne la corretta esecuzione. “Il TSO dovrebbe essere un provvedimento residuale, l’extrema ratio da adottare nel momento in cui tutte le altre strade non hanno funzionato”, spiega a Valigia Blu Valentina Calderone, esperta di questioni relative agli abusi commessi in situazioni di privazione della libertà, di carcere e di immigrazione e direttrice dell’associazione A Buon Diritto. “Prima di arrivare al trattamento, dovrebbero essere messe in campo soluzioni e accortezze per convincere la persona a sottoporsi alle cure di cui necessita. Il problema è che gli psichiatri pubblici che hanno in carico dei cittadini bisognosi di assistenza hanno a disposizione dei tempi limitatissimi: nella maggioranza dei casi, il loro incontro si sostanzia nella somministrazione della terapia mensile, e non si va oltre la semplice puntura di psicofarmaco (spesso, anche perché i servizi di psichiatria per adulti sono sottodimensionati); e invece bisognerebbe avere a disposizione il tempo necessario per provare a parlare con la persona, calmarla e convincerla a reintrodurla nel percorso di cura”. 

Le altre criticità riguardano gli stessi soggetti coinvolti nell’attivazione del trattamento, innanzitutto i pubblici ufficiali chiamati a ordinarne l’esecuzione: “La legge prevede che l’ordinanza debba essere emanata dal sindaco che, per forza di cose, spesso e volentieri non ha le competenze idonee per comprendere se, effettivamente, il TSO sia l’unica via percorribile in quel preciso istante”. 

Il principale cortocircuito da correggere, però, riguarda l’ultima fase di una catena di responsabilità sfilacciata e assolutamente non a contatto con i pazienti, ossia le forze di polizia a cui, nella stragrande maggioranza dei casi, viene delegato l’accompagnamento nell’esecuzione dei TSO. “Gli agenti che vengono chiamati a intervenire nei trattamenti per far sì che i pazienti salgano sulle ambulanze non vengono adeguatamente formati – prosegue Calderone – e, quindi, non hanno la minima idea di cosa voglia dire trattare con un paziente che, in un dato momento, necessita di un TSO. Sulla base di queste premesse è quasi naturale che una misura che, nel suo spirito originario, è così intimamente connessa alla necessità della cura finisca per essere eseguita come un provvedimento restrittivo tra i tanti. La contraddizione culturale è tutta qui: la salute mentale, nel momento in cui c’è qualche reazione scomposta da parte del soggetto a cui il provvedimento è indirizzato, viene trattata come un problema di sicurezza pubblica e non più come un problema di salute che, magari, avrebbe potuto essere prevenuto”. 

Eppure, negli anni, le occasioni utili per stimolare una riflessione critica sull’impreparazione degli agenti chiamati a interfacciarsi con persone in stato di alterazione psicofisica non sono mancate e, anzi, l’esigenza di far fronte a queste lacune ha trovato uno spazio di discussione importante anche all’interno delle stesse forze dell’ordine: “Nel 2014, poche settimane prima del decesso di Riccardo Magherini – l’ex calciatore della Fiorentina morto nella notte tra il 2 e il 3 marzo del 2014 a Borgo San Frediano dopo essere stato fermato da una pattuglia dei Carabinieri – il comando generale dei Carabinieri emanò delle linee guida volte a chiarificare le modalità di intervento che gli agenti avrebbero dovuto seguire in caso di interventi su persone in stato di alterazione psicofisica: in quel caso, la circolare non si riferiva esplicitamente ai TSO, ma incorporava delle norme di condotta da seguire in alcune operazioni di polizia, come arresti e fermi”.

La circolare a cui Calderone fa riferimento è la n. 1168/483-1-1993 del 30 gennaio 2014, citata dal Senatore Luigi Manconi in un atto di sindacato ispettivo del luglio 2016 relativo al caso Magherini: il documento aveva per oggetto "Interventi operativi nei confronti di soggetti in stato di agitazione psicofisica conseguente a patologie o causato dall'abuso di alcool e/o sostanze stupefacenti”. Nelle sei pagine che componevano la circolare erano contenute alcune istruzioni, corredate da apposite illustrazioni, adoperate "al fine di ridurre al minimo i rischi per l'incolumità fisica delle persone a vario titolo coinvolte". Ad esempio, veniva data istruzione di evitare di invadere lo spazio fisico della persona in stato di agitazione e di stabilire un dialogo teso a instaurare un "rapporto di empatia". Per quanto riguarda le circostanze estreme – quelle, cioè, in cui non fosse possibile evitare l'uso della forza –, la circolare raccomandava di scongiurare i "rischi derivanti da prolungate colluttazioni o da immobilizzazioni protratte, specie se a terra in posizione prona": raccomandava, quindi, che il soggetto dovesse essere trattenuto possibilmente in piedi, al fine di evitare "impedimenti nelle funzioni vitali e lesioni collaterali”. 

Riccardo Magherini morì un mese dopo l'emanazione di quella circolare, proprio nella posizione prona, ammanettata e con compressione toracica che il documento sconsigliava. Come spiegò ancora Manconi in un’interrogazione a risposta scritta, "queste linee guida furono abrogate nel gennaio del 2016, due anni dopo quei drammatici fatti; al loro posto è stata diramata a tutti i comandi d'Italia la circolare n. 1168/483-1-1993 del 19 gennaio 2016, caratterizzata da finalità diametralmente opposte e dall’applicazione di un metro completamente diverso, e non più improntato alla mediazione, già a partire dall’oggetto: 'Interventi operativi, dispositivi di autodifesa del personale e uso progressivo della forza'. Nella nuova circolare, molte delle misure di garanzia previste nel documento precedente non sono state riproposte: ad esempio, le avvertenze sul rischio che può provocare l'ammanettamento nella posizione prona a terra sono state eliminate, mentre sono state inserite indicazioni relative alle 'modalità di impiego del tonfa e dello spray al peperoncino'".

Calderone sottolinea come questa mancanza di disponibilità al dialogo e alla ricerca di una mediazione col paziente sia stata evidente anche nel caso di Soldi: con qualche apertura in più da parte del personale sanitario, probabilmente, quel triste epilogo avrebbe potuto essere scongiurato. “Qualche mese prima dei tristi fatti del 5 agosto Andrea, che rifiutava da tempo di prendere la terapia, aveva avuto un’altra crisi: in quell’occasione, però, la psichiatra che lo seguiva si è messa a sua completa disposizione: è rimasta per 4 ore in Piazza Umbria a parlare con lui, dedicandogli il tempo che necessitava e scongiurando il ricorso al TSO. In quell’occasione, il servizio pubblico ha capito che quello di cui Soldi aveva bisogno era un approccio diverso, basato sul dialogo e sulla mediazione. Com’è stato possibile che, a distanza di qualche mese, la stessa sanità pubblica, nella stessa città, abbia fornito una risposta così diametralmente opposta? Era cambiato qualcosa nella struttura? Era cambiato il personale? Eppure Andrea non era una persona sconosciuta ai servizi: aveva una storia assolutamente consolidata e  dei precedenti che, se consultati, avrebbero suggerire la strada giusta da seguire”.

Ma quali sono i passi da compiere per correggere queste criticità? Sia Calderone che Dell’Acqua non hanno dubbi: allargare l'equipe interdisciplinare reclutando più psicologi e rendere operative le reti di assistenza esistenti, da strutturare per gradi di intervento e cure. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, infatti, il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) ha predisposto una rete di strutture dedicate, articolate nei cosiddetti Dipartimenti di Salute Mentale (Dsm), istituiti per fornire prestazioni gratuite e un primo livello di assistenza.

Le strutture idonee a garantire a chiunque il diritto alla salute mentale, quindi, almeno su un piano puramente formale, ci sono. Il dramma, però, come hanno evidenziato gli psicoterapeuti Gianluca D’Amico e Luca Sansò, è che l’architettura – potenzialmente virtuosa – predisposta dal SSN finisce per scontrarsi con almeno due problematiche di natura endemica. La prima è la scarsità di informazioni (molte persone non sono al corrente della stessa esistenza di queste realtà, già presenti sul territorio ma sconosciute alla maggior parte della potenziale utenza). La seconda, quella ben più grave, è invece la carenza di alcune professionalità importanti per consentire alla macchina pubblica di funzionare a pieno regime.

Per poter rimettere in sesto i DSM e soddisfare la domanda crescente da parte di persone di ogni fascia d’età, servirebbe un aumento di spesa pubblica considerevole, pari a circa 3 miliardi, indispensabili per stimolare un’ondata di assunzioni nel pubblico e rendere operative le reti di assistenza: secondo le stime della Società Italiana di Psichiatria, infatti, mancano all’appello 2mila psichiatri, 1.500 psicologi, 5mila infermieri, 1.500 terapisti della riabilitazione psichiatrica e altrettanti assistenti sociali. Anche l’atteggiamento irresponsabile degli enti locali ha contribuito ad aggravare il quadro: nel 2001, un documento sottoscritto all’unanimità da tutti i presidenti delle Regioni aveva impegnato le giunte a destinare il 5% della spesa sanitaria alla salute mentale, ma gli impegni assunti sulla carta non sono stati rispettati. La fotografia che scaturisce dalla più recenti rilevazioni Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica è infatti impietosa: gli investimenti risultano insufficienti in 18 regioni su 20 – si collocano al di sopra della soglia del 5% soltanto le province autonome di Trento e Bolzano, mentre l’Emilia Romagna, con il 4,93% è l’unica regione sostanzialmente aderente all’impegno e l’Umbria (4,65%) è l’unica che si pone al di sopra del 4%.

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La mancata allocazione di queste risorse si traduce in una carenza di servizi che va tutta a discapito delle famiglie: “Non è possibile che i centri diurni siano chiusi nel fine settimane – spiega Calderone –, per la semplice ragione che le crisi psicotiche non vanno in villeggiatura nel weekend. Manca una progressione di servizi che possa far sì che le persone non arrivino a quella fase di acuzie che, nella maggioranza dei casi, sfocia nell’applicazione immediata di un provvedimento coercitivo mascherato da TSO”.

Da tempo il Forum Salute Mentale – diretto dallo stesso Dell’Acqua – denuncia l’assenza dello Stato, il fallimento delle politiche regionali per la salute mentale, il declino dei servizi comunitari, l’insufficiente preparazione delle scuole di formazione e la sistematica diminuzione delle risorse. Urge una risposta concreta, per ripristinare lo spirito originario della Legge Basaglia e urlare a gran voce che, no, nel paese che ha chiuso i manicomi, non è più accettabile morire di inappropriatezza nell’applicazione degli interventi. 

Immagine in anteprima via assocarenews.it

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