Il portavoce della resistenza in Afghanistan è stato ucciso dai talebani

di Andrea Nicastro

Fahim Dashti, giornalista, portavoce del Fronte nazionale della resistenza ai talebani, è stato ucciso in uno scontro nel Panshir, secondo quanto ha riferito una fonte a Tolo News

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L’ultimo flag verde sul WhatsApp di Fahim Dashti è di venerdì alle 16.

Poco dopo con una chiamata, Fahim ringraziava dell’intervista che sarebbe uscita sul Corriere e quasi si scusava per il poco tempo che poteva dedicare. «Devi capire che non è facile rispondere a tutti. Ci sono centinaia di giornali che vorrebbero notizie, ma la situazione per noi è complicata. Siamo costantemente in movimento. Le comunicazioni sono difficili». E poi ancora: «Non trovi sia ironico? Fino al 14 agosto esisteva un governo a Kabul, aveva un seggio alle Nazioni Unite, il numero di telefono della Casa Bianca. E oggi? Tre settimane dopo quel che rimane di quel governo è chiamato “ribelle”. Noi siamo diventati gli “insorti”. Finché lo dicono i talebani, lo capisco, ma che lo scrivano anche i giornali stranieri, questo lo trovo assurdo, degno di una politica cinica, che usa l’Afghanistan fino a che gli fa comodo e poi lo butta».

Dashti sarebbe morto ieri o forse sabato. Ucciso dai talebani in Panshir in uno scontro a fuoco o più probabilmente in un’esplosione.

Lo sostiene un flash di ToloTv, ma lo conferma anche una fonte del Corriere dal Panshir.

Da quando i Talebani avevano preso Kabul a Ferragosto era diventato la voce del Fronte Nazionale di Resistenza contro gli «studenti del Corano» guidato dal figlio del comandante Massoud e dal vice presidente Saleh. Dashti era appena un ragazzo il 9 settembre 2001. Aspettava il suo turno per farsi raccontare un altro spicchio della vita di Ahmad Shah Massoud dallo stesso comandante.

Avrebbe voluto farne una biografia. Per un tajiko, un panshiro, uno che voleva fare della scrittura la sua vita, sarebbe stato il massimo firmare la biografia del «Leone», quella sorta di Che Guevara islamico che aveva resistito ai sovietici e in quegli anni teneva testa ai talebani. Prima di lui, però, toccava a due colleghi con accredito della tv marocchina. In realtà si trattava di terroristi suicidi di Al Qaeda. La telecamera esplose. Massoud morì e Dashtì ebbe ustioni che gli lasciarono addosso cicatrici vistose. Invece della biografia Dashtì scrisse la storia di quell’attentato. Da quel giorno in Afghanistan qualunque apparecchio deve mostrare di funzionare prima di entrare in un luogo sensibile.

Dashti era uno dei migliori giornalisti dell’Afghanistan. Amava la pastasciutta e a «casa Corriere», a Kabul, chiedeva sempre un secondo piatto. Dal 2001 al 2011 aveva diretto Kabul Weekly, il giornale più venduto del Paese, stampato in tre lingue: pashtu, tajiko e inglese.

Era un uomo corretto, gentile, professionale. Coraggioso. «Capisci? Noi non possiamo arrenderci. Se ci fidassimo dei talebani ci ucciderebbero ad uno ad uno. Meglio combattere».

5 settembre 2021 (modifica il 5 settembre 2021 | 23:00)