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Iraq. La rivolta tra le elezioni e gli squadroni della morte

di Fabio
Alberti

Ihab Al-Wazni, era a bordo della sua auto davanti casa in Al-Haddad Street, nel centro di Karbala, quando il 9 maggio di primo mattino due uomini in moto, incappucciati e armati di pistole col silenziatore lo hanno assassinato. Una vera e propria esecuzione. Forse stava andando in piazza Al-Ahrar dove sin dall’ottobre 2019 si tenevano le manifestazioni di cui era uno dei maggiori animatori. Faceva parte del comitato di coordinamento della Tishreen Revolution, la Rivoluzione d’ottobre. I suoi compagni lo chiamavano il Che Guevara di Karbala.

Ihab era già sopravvissuto ad un attentato nel dicembre del 2019, come l’attivista Salah Al-Iraqi, scampato ad un primo attentato e poi ucciso il 15 dicembre 2020 a Baghdad; come il nutrizionista Reham Yacoub, assassinato a Bassora il 19 agosto 2020 in una notte in cui nella città di Sindbad sono stati eliminati altri 3 attivisti; come l’analista politico Hisham al-Hashemi ucciso l’8 luglio 2020 dopo aver ricevuto minacce da Kata’ib Hezbollah, una delle milizie filoiraniane più violente; come decine e decine di altri e altre attiviste e di giornalisti in tutto il paese  che, sfuggiti alla repressione della polizia che spara regolarmente sulle manifestazioni, sono stati assassinati a casa loro, per strada, o sono semplicemente scomparsi come nell’Argentina dei generali.

E proprio le milizie filoiraniane, parte delle Forze di Mobilitazione Popolare che hanno combattuto Daesh, sono accusate dal movimento di rivolta di essere gli squadroni della morte responsabili delle violenze contro gli elementi più attivi e più in vista della rivolta irachena.

Le FMP nacquero nel 2014, all’indomani della presa di Mosul da parte dello Stato Islamico in seguito ad una fatwa della più autorevole voce scita, il grand’Ayatollah Ali al-Sistani, che invitò gli iracheni a combattere  Daesh. Si formarono allora, a volte con il determinante addestramento delle brigate alQuds del generale iraniano Soleimani, formazioni armate popolari che furono inquadrate nel dispositivo di guerra a Daesh insieme all’esercito iracheno e alla missione multinazionale. Milizie parastatali, quindi, formalmente incluse nel sistema di sicurezza iracheno, che al termine della guerra a Daesh non sono state sciolte, (d’altronde non si sono ritirate nemmeno le truppe Usa e Nato), ma si sono legate ad una formazione politica, Al Fatah, che nelle elezioni politiche del 2018, capitalizzando il sacrificio dei combattenti contro Daesh, raccolse circa il 15% di voti ed oggi sono uno dei fattori della dinamica politica.

La forte influenza iraniana sulla politica interna irachena, esercitata per il tramite di gruppi armati che tra un omicidio politico e l’altro sparano un missile sull’ambasciata Usa per legittimarsi, è considerata dai manifestanti una delle cause del blocco del sistema politico iracheno, dal 2003 basato sulla spartizione etnico-religiosa del potere impostata dalla occupazione statunitense, che ha permesso il dilagare della corruzione e dell’appropriazione privata dei fondi per la ricostruzione.

L’assassinio di al-Wazni ha rimesso in moto la protesta dei giovani e delle giovani irachene che, anche a causa della pandemia, da qualche tempo era calata di intensità. Lo stesso 9 maggio una folla di ragazzi e ragazze hanno bloccato le strade e preso d’assalto il consolato iraniano a Karbala e manifestato a Nassiria. La famiglia di Ihab ha lanciato lo slogan “I am an Iraqi, who killed me?” riferendosi alle centinaia di attivisti uccisi, che è stata la base di una nuova grande manifestazione nazionale a Baghdad il 25 maggio.

La nuova mobilitazione “milionaria” era stata convocata per chiedere che siano resi pubblici i nomi dei responsabili delle uccisioni e che gli stessi siano assicurati alla giustizia. I manifestanti hanno aggiunto a questa richiesta storica una forte chiamata al boicottaggio delle elezioni anticipate del 10 ottobre: non è possibile tenere elezioni eque e trasparenti fino a che i responsabili di questo clima di intimidazione violenta sono in circolazione protetti da un clima di impunità evidente.

Anche il 25 maggio la risposta degli apparati dello stato sono state le armi da fuoco che hanno fatto altre due vittime, facendo così salire ulteriormente il tributo di sangue, già oltre i 700, che i ragazzi e le ragazze irachene stanno dando per un futuro del loro paese.

Le elezioni anticipate sono una delle richieste delle piazze che, sin dai primi giorni, sono andate oltre alle semplici richieste materiali come l’acqua potabile e l’elettricità o il lavoro, per investire direttamente la struttura del potere iracheno. Dopo aver fatto cadere il governo Mahdi e messo il veto su numerosi suoi possibili sostituti, le piazze avevano chiesto la riforma della legge elettorale e elezioni anticipate, che l’attuale governo avrebbe dovuto garantire in maggio, poi spostandole ad ottobre.

La nuova commissione elettorale, che in base alle richieste della piazza è stata modificata nella composizione per esser composta esclusivamente da giudici ed essere, almeno sulla carta, più indipendente, ha reso noto che si sono sinora registrate 44 coalizioni elettorali con oltre 250 partiti e più di 3500 candidati, per gli 83 nuovi collegi elettorali disegnati – almeno in teoria – per aumentare le chance di elezione dei candidati indipendenti, che sono più numerosi di quelli indicati nelle liste di partito. Ma nonostante alcune delle richieste siano state accorte, almeno nella forma, i manifestanti denunciano che la mancanza di libertà nella azione politica e della stampa (decine di giornalisti che documentavano la rivolta sono stati uccisi) renderà impossibile che le elezioni portino al cambiamento sostanziale che il paese richiede.

Molti partiti, tra cui lo stesso Partito Comunista Iracheno, appoggiando la chiamata al boicottaggio delle piazze hanno sospeso la propria partecipazione alle elezioni chiedendo garanzie democratiche ed aperto un braccio di ferro con il governo Kazemi. Al centro delle preoccupazioni è la presenza infestante delle milizie armate, che non si limita alle sole truppe fedeli a Teheran ed il cui scioglimento, che nonostante sia stabilito per legge non è mai iniziato, si teme possa riaprire una guerra civile. Sullo sfondo il dialogo strategico in corso tra Baghdad e Washington che sta discutendo delle truppe Usa, forse in futuro sostituite da contingenti Nato, che il Parlamento ha chiesto di ritirare, dato che la guerra a Daesh è finita. Semmai ci sarebbe da respingere l’invasione turca in corso da settimane nel nord del paese.

Insomma, anche le prossime elezioni irachene, insieme al futuro di milioni di ragazzi e ragazze, la prima generazione che potrebbe aspirare a vivere in un paese normale dopo decenni di guerre, sono ostaggio dello scontro Usa-Iran che si combatte sulla pelle della popolazione della Mesopotamia. E mentre i manifestanti continuano a chiedere un paese indipendente c’è chi spera che la ripresa dei colloqui sul JCPOA (l’accordo sul nucleare iraniano) ripresi dopo la elezione di Biden possano allentare la pressione in un paese che è ancora di fatto un condominio. Intanto la Ong Un Ponte Per ha lanciato un appello alla società civile italiana ed europea per organizzare una delegazione di solidarietà con la società civile irachena in occasione delle elezioni di ottobre.

 

Comunicato stampa di Un ponte per: Non lasciate soli i ragazzi della Mesopotamia

 

 

 

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