«Il mondo era il solito e non era più lo stesso»
(Svetlana Aleksievi, “Preghiera per Chernobyl”, 1997).
«Si parla dell’acqua di Chernobyl... Ci vuole un po’
per scuotere l’incubo, farlo uscire dalla stanza»
(Guido Ceronetti, 1990).
«Non c’è stato nulla di sano, a Chernobyl. Né
prima, né dopo» (“Chernobyl”, serie tv, 2019).
Chernobyl, Anno 35 dopo l’apocalisse Le radiazioni sono ovunque ma le piante si sono riprese tutto
di Francesco Battistini04 mar 2021
Quel che si dice sempre in questi casi: niente sarà come prima. Tutto invece è anche più di prima. Prendete le foreste che dopo l’esplosione diventarono secche e rosse, e i 400 ettari di pini che morirono: ora ci crescono pioppi verdissimi e betulle foltissime. O i cani abbandonati dagli ucraini in fuga, ammazzati perché era troppo pericoloso lasciarli randagi in quel nulla: al loro posto, son tornati i lupi.
L’area intorno al reattore esploso in Ucraina è diventata la terza riserva più grande d’Europa di flora e fauna (lo stesso accade a Fukushima dopo 10 anni). Naturalmente i rischi non sono scomparsi. La resilienza della natura dimostra però che la presenza dell’uomo è più pericolosa di una esplosione nucleare
Dietro la scuola media sulla Sportivnaja, nel paesino fantasma di Pripyat, si vede ancora il pavimento di linoleum della palestra: le radici l’hanno spaccato e alle spalliere s’è avvinta l’edera. Le autorità ucraine previdero il deserto atomico per almeno 300 anni; Greenpeace, per 20mila: «Invece quando la gente se n’è andata», racconta un ingegnere della Chernobyl Exclusion Zone, un raggio di 30 km intorno alla centrale, «è tornata la natura. Le radiazioni sono ovunque, hanno effetti tremendi. Ma sono un fattore meno rilevante dell’assenza dell’uomo. Oggi questa è diventata la terza più grande riserva di piante e animali in Europa. E la rinascita ambientale è l’unica conseguenza positiva di quella catastrofe». La natura non fa salti. Ma che capriole...
Esperimento-pilota di rewilding
Il più grande disastro nucleare della storia si sta trasformando nella più straordinaria rivincita green. Un esperimento-pilota di rewilding. Sia chiaro: 35 anni dopo l’incendio del reattore numero 4 “Lenin”, dopo quel 26 aprile ‘86 che precipitò il mondo nella prima emergenza ambientale globale, una bomba radioattiva 500 volte più potente di Hiroshima, da allora Chernobyl è rimasta la cattedrale della distruzione che fu. Almeno 30mila morti, nell’immediato e nei decenni successivi. Mezzo milione di sfollati. Cento fra città e villaggi svuotati. Cinque milioni di persone destinate a costanti controlli medici. Migliaia di neonati malformati in tutta Europa. 2.800 km quadrati d’acque, flora e fauna contaminati per sempre. (continua a leggere dopo i link)
Su Pianeta 2021, leggi anche
La lava radioattiva, imprigionata in un sarcofago, che brucerà a mille gradi per altri cent’anni. Le immagini degli 850mila ignari soccorritori (i famosi “liquidatori”) che il regime mandò allo sbaraglio a mani nude... Questo è il bianco e nero della storia, a uso delle comitive di turisti: a Kiev c’è un piccolo, periferico museo che lo ricorda, a chi proprio vuol ricordare.
I dati del disastro avvenuto 35 anni fa: dopo l’esplosione del reattore numero 4 di Chernobyl, il 26 aprile 1986, vi furono almeno 30 mila morti. L’area off-limits per l’uomo, la «zona d’esclusione», è di 30 chilometri
Gli alberi crescono al settimo piano
Poi però ci sono le sorprendenti foto a colori della cronaca 2021. La post-apocalisse che non s’aspettava nessuno. Un Earthporn con paesaggi da cartolina, che eccitano per la nudità della natura: le linci, i cervi, i cinghiali che zampettano selvatici lungo enormi viali sovietici a quindici corsie, trasformati in fiumi di vegetazione; le cicogne nere a nidificare fra palazzi con alberi che spuntano dai balconi del settimo piano. Sono spariti i piccioni che dipendevano dall’uomo, sono comparse specie d’animali selvatici mai viste da queste parti. Il pony mongolo e il bisonte europeo, quasi estinti, moltiplicati in centinaia d’esemplari. I lupi che nessuno caccia più, e che sono sette volte quelli d’allora. Foreste primarie più resilienti agl’incendi e al cambio del clima, una biodiversità capace di catturare più carbonio. Naturalmente, il rinascimento verde non ha sepolto i rischi: nessuno sa come stiano e quanto possano campare, questi animali contaminati. E che cosa ne sia della legna radioattiva, contrabbandata in Europa dalle mafie di confine. O della segale e dell’orzo, dell’avena e del grano cresciuti intorno alla centrale atomica, tutt’ora a livelli altissimi d’isotopi radioattivi.
La domanda all’Unesco: patrimonio dell’Umanità?
Non s’immagina nemmeno un destino per gli umani, pochissimi, tornati a vivere dove stavano nel 1986: 200 “samosely”, vecchi coloni che han camminato centinaia di chilometri fin qui e che ora non se ne vogliono andare. Non li obbligheranno: il governo ucraino li assiste sottobanco, li lascerà nelle loro case finché non si spegneranno per l’età o per le malattie. I boschi t’insegnano ciò che non potrai imparare da nessun altro, diceva un’antica regola benedettina, e la Chernobyl verde ha del miracoloso. Ma non stupisce Stefano Mancuso, botanico di fama mondiale e docente di Arboricoltura generale dell’Università di Firenze, che da sempre studia l’intelligenza delle piante: «Per 35 anni, l’uomo non è più rientrato a Chernobyl. Le piante, sì. Facendola somigliare alle rovine cambogiane di Angkor, le liane sui templi. Certo, 35 anni sono nulla al confronto di quei secoli. In fondo c’è una morale: la presenza dell’uomo è più pericolosa perfino delle radiazioni». È anche per questo paradosso che ora l’Ucraina chiede all’Unesco di dichiarare Chernobyl Patrimonio dell’Umanità...
Il salice di Hiroshima e la via d’acqua
«Trovo rassicurante che le piante abbiano questa capacità di resistere dove l’uomo le ha cacciate in malo modo. A 300 metri dal cratere di Hiroshima, c’è un salice che sopravvisse a un’onda radioattiva di 3000°, la temperatura della superficie solare. Se ha resistito a quello, Chernobyl è acqua di rose». La vita segreta delle piante rispunta dove meno te l’aspetti. Una scrittrice, Cal Flyn, l’ha censita in un libro ( Islands of Abandonment ) che è un inno alla resilienza vegetale in vari angoli del mondo: nelle zone demilitarizzate fra le due Coree e fra le due Cipro, nelle miniere abbandonate della Scozia, nelle fabbriche deserte di Detroit, nella Zone Rouge di Verdun. L’11 marzo saranno 10 anni dall’incidente nucleare di Fukushima e pure là si rivedono procioni e macachi scorrazzare in una vegetazione sbalorditiva, tra funghi che mangiano le particelle radioattive. «Non c’è bisogno d’andare sui disastri di Ucraina o Giappone», spiega Mancuso: «A chiunque è capitato d’imbattersi in piante di fico spuntate su una torre o da un muro: anche quella è una forma d’adattamento che dice tanto. Quando esplode un vulcano sottomarino, per esempio, è interessante osservare le isole di lava fredda. Sono più sterili di Marte. E i primi esseri viventi a insediarsi sono sempre le piante, grazie ai semi portati dagli uccelli o dall’acqua».
Il Dna vegetale anti radiazioni
Da dove viene questa forza? Il materiale radioattivo di Chernobyl, instabile, può modificare o distruggere il dna degli animali. Ma non sa fare lo stesso coi vegetali: le piante s’adattano a produrre nuove cellule, in sostituzione di quelle attaccate. Certo, bisognerebbe lasciare che la natura si prendesse i suoi tempi, e anche stavolta non sembra che l’uomo l’abbia capito: nella Polesia, area paludosa fra le più estese d’Europa fra la Bielorussia e l’Ucraina, l’anno scorso s’è cominciato a dragare il fiume Pripyat per costruire un canale navigabile (il Progetto E40) che colleghi Mar Baltico e Mar Nero. Ma il Pripyat scorre vicino al reattore 4, proprio lì, e le sue acque irrigano terreni che servono 20 milioni di persone, arrivando a Kiev. «Si rischia di smuovere i sedimenti radioattivi», denunciano gli ecologisti: il canale è più costoso, più inquinante e lento d’una ferrovia, eppure ci s’ostina a creare le condizioni d’un altro disastro.
Prometeo e le conseguenze ignorate
La presunzione prometeica resiste «L’uomo non riflette mai abbastanza sulle conseguenze», commenta Mancuso. «Una ricerca di pochi mesi fa ha rivelato come i materiali inorganici del Pianeta, dal cemento alla plastica, per la prima volta abbiano superato il peso complessivo delle biomasse, cioè il peso stesso della vita. È uno sterminio. All’inizio dell’agricoltura, 10mila anni fa, avevamo 6mila miliardi d’alberi: sono diventati la metà, e 2mila miliardi sono stati tagliati negli ultimi 200 anni. Nel 1970, sulla Terra c’era il doppio degli animali che abbiamo oggi: il 96% dei mammiferi ormai è costituito da umani o da mammiferi in cattività, solo il 4% è fauna selvatica. Più del 70% dei volatili di tutto il mondo è fatto di pollame. Numeri apocalittici. La trasformazione dell’ambiente in un supermarket. Questa presunzione prometeica, che ci fa pensare d’essere al di sopra di tutto, rischiamo di pagarla cara. L’università di Cambridge ha pubblicato un rapporto, Economy of Biodiversity , per dimostrare ancora una volta che l’uomo ha due strade: o continua a elevarsi sulla natura, oppure accetta d’esserne parte, salvando un’economia globale che altrimenti è destinata a esplodere come una centrale nucleare».
Il modello decentrato delle piante
Quel che si vede a Chernobyl, s’è visto anche col Covid: i caprioli che scendevano nelle città deserte, i delfini nei canali di Venezia... Qual è la lezione? «Che esistono modelli diversi di sviluppo sociale», dice Mancuso. «Noi abbiamo costruito le nostre società copiando solo il modello animale, che è minoritario. Pensi a tutte le organizzazioni gerarchiche e centralizzate: sono così perché noi ci siamo ispirati ai corpi, fatti d’un cervello e d’organi che ne dipendono. È un modello che ha un difetto, la fragilità: se un organo si rompe, tutto il corpo ne risente. Le piante invece sono un modello diverso. Tutto è diffuso, decentrato: se una cellula si guasta, viene sostituita e la pianta non ne risente». Com’è accaduto nelle foreste rosse investite dalle radiazioni... «Esatto. Sono morte e han lasciato il posto ad altri alberi. Non è un modo diverso di pensare lo sviluppo? Le piante ci dicono sempre qualcosa. Anche a Chernobyl. Dovremmo imparare da loro».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
ULTIME NOTIZIE DA PIANETA 2030
Aree protette e azioni di conservazione della natura aiutano la biodiversità in due casi su tre, ma servono più investimenti
di Valeriano Musiu
La “Guerra fredda” torna in Africa: Usa e Russia in lizza per costruire la prima centrale nucleare in Ghana
di Peppe Aquaro
Crisi climatica e sostenibilità digitale, un italiano su quattro non conosce il tema
di Peppe Aquaro