Nel 1906 il pensatore socialista statunitense Upton Sinclair scrisse The Jungle: La giungla. Un libro-inchiesta rivoluzionario che denunciava l’inferno dei lavoratori (spesso stranieri) e degli animali in quelle malsane macchine di smontaggio che erano i macelli e le fabbriche della carne a Chicago. Umanità triturata insieme alle bestie, a spese poi della salute dei consumatori. Il titolo evocava la «legge della giungla»: una metafora della spietatezza.

Negli ultimi decenni, la filiera globale della carne ha sviluppato un nesso diretto con la giungla vera: la foresta tropicale. Sul tema, in occasione della giornata mondiale dell’ambiente 2020, Greenpeace ha diffuso il suo secondo rapporto: Foreste al macello II, focalizzato sul parco statale Ricardo Franco, nello Stato del Mato Grosso, Brasile. Un’area preziosa dove s’incontrano foresta amazzonica, Cerrado (la savana più ricca di biodiversità del pianeta) e Pantanal (la più grande zona umida del globo). Il parco ospita specie animali e vegetali uniche, fra cui numerosi mammiferi quasi estinti come il formichiere gigante.

Mai adeguatamente protetto, il Ricardo Franco vede ormai il 71% della sua estensione occupato da 137 aziende agricole. Greenpeace ha focalizzato l’inchiesta sulla Paredao, di proprietà di due politici, scoprendo che la catena di approvvigionamento che porta la carne brasiliana sul mercato europeo ha del truffaldino.

Ecco la sequenza tipo. La foresta viene distrutta e trasformata in pascoli da aziende agricole. Queste fanno un’autodichiarazione e iscrivono l’area deforestata e occupata nel Registro ambientale rurale per regolarizzarne la proprietà. Dopo un certo periodo di tempo gli animali al pascolo vengono venduti a un’altra azienda i cui terreni non sono legati alla deforestazione e che a sua volta vende i capi a un macello o ad aziende di lavorazione, le quali – mentre nel frattempo il legame con la deforestazione sparisce – rivendono sul mercato nazionale o internazionale. Infine il prodotto arriva anche nei supermercati, ristoranti e fast-food di tutta Europa.

«Senza un controllo accurato di tutti i fornitori si rischia di acquistare carne contaminata: dalla deforestazione», spiega il rapporto, che chiede alla Commissione europea di presentare rapidamente una normativa la quale imponga che carne, soia, olio di palma e cacao venduti nel nostro continente soddisfino criteri di vera sostenibilità. Comunque, puntualizza Martina Borghi della campagna foreste di Greenpeace, «bisogna produrre e consumare meno carne».

Per l’Istituto brasiliano di ricerche spaziali (Inpe), nel 2019 la deforestazione in Amazzonia è aumentata del 30% rispetto al 2018. Fra gennaio e aprile 2020 è ancora peggio, con un aumento del 62%.

L’indagine pubblicata nel primo rapporto, Foreste al macello del 2019, riguardava invece il Gran Chaco (fra Argentina, Bolivia e Paraguay), la foresta tropicale più ampia del continente dopo l’Amazzonia. Oltre 1,1 milioni di chilometri quadrati, quattro milioni di abitanti, l’8% dei quali popoli indigeni, il Gran Chaco presenta uno dei tassi di deforestazione più elevati a causa soprattutto degli allevamenti e dell’espansione delle piantagioni di soia geneticamente modificata.

È lo stesso ministero dell’ambiente argentino a dare i dati: fra il 1990 e il 2014 sono andati distrutti 7.226.000 ettari di foreste. Azzerati alberi, animali, biodiversità e il grande servizio di cattura naturale dell’anidride carbonica. L’Argentina è grande consumatore, produttore ed esportatore di carne bovina, anche verso l’Italia.

I siti di categoria vantano la resistenza delle esportazioni di carne malgrado la crisi da Covid-19. Pigsite.com riferiva alla fine di maggio (ne dà conto l’utile bollettino internazionale Vegeworld) che, secondo l’Associazione brasiliana delle proteine animali, il settore carne suina «passerà indenne la pandemia». Solo alcune unità di trasformazione hanno registrato periodi di chiusura per casi di lavoratori positivi al Sars-CoV-2. Intanto lo studio From pasture to plate, realizzato dall’istituto Escolhas di San Paolo, lamenta gli ingentissimi sussidi pubblici (22 miliardi di dollari in dieci anni) alla filiera bovina deforestatrice.