J. M. Keynes, che di certo non era un rivoluzionario, all’alba degli anni Trenta del secolo scorso scriveva che «i devoti del capitalismo sono spesso eccessivamente conservatori e respingono riforme nella sua tec-nica, che in realtà potrebbero rafforzarlo e preservarlo». Metafora perfetta di quanto sta accadendo adesso in Europa, dove, nonostante lo spettro di una crisi che si annuncia più dura di quella del 1929, alcuni Paesi rimangono attaccati ai loro preconcetti ideologici. Anche a costo di rimetterci l’osso del collo.

Non è servita a molto la pausa di 24 ore dopo il fallimento del primo giro di discussione in seno all’Eurogruppo. L’«asse del nord», capeggiato dall’Olanda e dalla Germania, continua ad opporsi all’ipotesi, caldeggiata in primo luogo dall’Italia, di uno «strumento di debito comune» per fronteggiare in solido lo tsunami che si sta per abbattere sul Continente, mentre rimane nel limbo la proposta francese di istituire un «fondo di solidarietà» in grado di emettere obbligazioni a lungo termine.

450 miliardi di euro, che servirebbero a finanziare i servizi pubblici essenziali, come quelli sanitari, e andare in soccorso dei settori più colpiti dal blocco delle produzioni, dalla frenata del commercio e dai limiti imposti alla mobilità delle persone.

Eppure, la Germania dovrebbe valutare attentamente l’impatto che la rovina degli Stati del sud potrebbe avere sul suo export e sulla sua «manifattura allargata». Tra le conseguenze del coronavirus ci saranno anche, presumibilmente, una regressione del processo di globalizzazione dei mercati ed un restringimento delle catene di produzione del valore. Dove sta la logica nel condannare all’inferno i propri partner attuali e potenziali? Secondo una stima riportata dal Financial Times, l’economia tedesca subirà una contrazione del 10% da qui a giugno, una cosa mai vista dal 1970 (anno d’inizio della serie storica dei conti trimestrali) ad oggi.

È proprio il caso di dire che «dio acceca chi vuole perdere». La crisi che abbiamo alle porte non è paragonabile a quella di dieci anni fa. Non si tratta di uno shock finanziario che colpisce in maniera asimmetrica l’Europa. E l’Unione europea nel suo insieme che rischia un’ecatombe di posti di lavoro e delle sue attività produttive.

L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) stima che per effetto del coronavirus in Europa ci sarà una riduzione del 7,8% delle ore lavorate nel secondo trimestre di quest’anno, 12 milioni di lavoratori a tempo pieno. Una situazione da far «tremar le vene e i polsi», che richiede risposte nuove, strappi significativi con le regole, scritte e non scritte, sulle quali si è basato finora il processo di integrazione.

Certamente la soluzione non può essere il Mes, che per i tedeschi e gli olandesi rientrerebbe tra le «soluzioni diverse dagli Eurobond». Non è accettabile che mentre le altre grandi banche centrali del mondo si spingono verso forme più o meno ardite di monetizzazione dei deficit di bilancio (la Bank of England ha annunciato che finanzierà direttamente la spesa aggiuntiva del governo), in Europa gli Stati membri debbano soggiacere ad una disciplina di erogazione di prestiti costruita sul modello del settore creditizio privato.

Il Fondo Salva Stati utilizza i propri strumenti di sostegno «nella prospettiva del creditore», valutando la capacità di rimborso del debitore e i livelli di remunerazione del capitale. Proprio come nel rapporto tra una banca commerciale qualunque e i suoi clienti. Con una differenza: le banche commerciali non pretendono di decidere quante volte al giorno possono mangiare i loro mutuatari. Ma poi, di che grandezze parliamo? Se il finanziamento non può eccedere il 2% del Pil degli Stati che ne fanno richiesta, per l’Italia il tutto si ridurrebbe a non più di 36 miliardi di euro. Un po’ poco per accettare in casa la Troika.

Intanto, la realtà incalza: serve uno sforzo finanziario eccezionale per evitare il collasso dell’economia europea. Dopo il lockdown, milioni di persone rischiano di finire per strada non per godersi la ritrovata libertà di movimento, ma perché nel frattempo avranno perso il loro lavoro. Non possono bastare il piano da 200 miliardi della Bei per le imprese e il cosiddetto progetto SURE da 100 miliardi annunciato dalla presidente della Commissione per finanziare, su richiesta dei singoli Stati, strumenti di stabilizzazione automatica come la cassa integrazione. Messi insieme non superano il piano di garanzie per le aziende che l’Italia, da sola, è riuscita ad approntare con l’ultimo «decreto liquidità».

O si condividono i rischi legati alla raccolta delle risorse sul mercato o si finanziano direttamente i deficit aggiuntivi degli Stati con nuova moneta. Non ci sono alternative.