Stazione di Como S. Giovanni
27 agosto 2016
Petros ha 22 anni, ed ha iniziato il suo viaggio ad Asmara, in Eritrea. Si è lasciato alle spalle un fratello ucciso e una madre sola. È partito con il fratellino minore, in cerca di futuro. Fino in Libia i due hanno viaggiato insieme, poi la barca li ha divisi. Il più piccolo è partito per primo, con altre 300 persone, ma l’Europa non è riuscito a vederla. Con Petros il mare è stato più generoso, lo ha portato in salvo fino alle coste siciliane.
Lo sbarco risale ai primi giorni di luglio, e subito dalla Sicilia inizia la risalita verso nord. Ha un caro amico che lo aspetta in Germania ed è lì che sogna di costruire il proprio futuro. L’arrivo in Italia, nell’Europa dei diritti e della libertà, che nell’immaginario sancisce la fine del viaggio, non è che l’ennesima sfida.
Dopo pochi giorni raggiunge la frontiera di Como, dove da più di 40 giorni è bloccato. Racconta di aver provato sei volte a passare la frontiera, e di essere stato per sei volte respinto. Ha provato in treno, ha provato a piedi. La scorsa settimana l’ho incontrato nel parco della stazione appena arrivato dall’ennesimo tentativo: aveva camminato per due giorni tra le montagne, arrivando fino in centro Lugano. Mi mostra una mappa e inizia a descrivermi il percorso; erano in due ragazzi, con un gps. Una volta arrivati in città, la
polizia li ha subito intercettati e non c’è stato modo di continuare il viaggio. Sono tornati a Como con un po’ di malinconia negli occhi non ancora disillusi.
Dei sei respingimenti, ce n’è stato uno che più di tutti lo ha segnato. Il 9 agosto, dopo essere stato riconsegnato dalla polizia svizzera a quella italiana, è stato caricato con la forza su un autobus Rampinini diretto a Taranto. Diciotto ore di viaggio, per essere rispedito al punto zero.
Giunti al capolinea, Petros e gli altri migranti vengono identificati forzatamente per l’ennesima volta. Subito dopo ricomincia con un amico la risalita verso nord. Il ritorno è fatto di piedi, treni e autobus; è un percorso tortuoso, continuamente interrotto per la mancanza di soldi e documenti. È un viaggio che dura diversi giorni e si conclude a Como, in tarda notte. Al loro arrivo in stazione li riaccogliamo, con un abbraccio e qualche banana. Passiamo una serata a chiaccherare, in una lingua fatta più di gesti che di parole. Petros è
sorridente, nonostante tutto, e la sua solarità contagia me e gli altri.
L’ultimo tentativo di passare la frontiera è stato pochi giorni fa. Con un amico hanno camminato tra le montagne fino a Balerna, dove la polizia li ha fermati e portati a Chiasso. Qui i due, insieme ad altri migranti, vengono fatti spogliare completamente e perquisiti. Una volta rivestiti vengono condotti in una stanza sotterranea, dove già si trovano una sessantina di persone nella loro stessa condizione. All’interno non ci sono finestre, ma solo una ventola per l’aria; Petros racconta di un caldo soffocante. Viene dato un pasto al giorno, composto da pane e acqua; c’è un unico bagno per tutti.
Dopo due giorni di reclusione la mattina del 24 agosto Petros viene fatto uscire e riconsegnato alla polizia italiana. Mentre si trova negli uffici della frontiera, insieme ad altri migranti appena respinti, la polizia inizia a smistare le persone. Alcuni saranno rimandati direttamente a Como, i meno fortunati sono destinati ad un viaggio ben più lungo, fino a Taranto. A questo punto, Petros racconta di aver avuto un momento di grande sconforto; nella sua mente si mischiano e sovrappongono ricordi diversi, di un fratellino morto in mare, delle violenze subite a Taranto, dei due giorni rinchiuso, della madre lontana, di un viaggio mai finito e l’incertezza del futuro… la testa sembra scoppiare, e il ragazzo va verso il bagno. Qui, con un laccio per le scarpe, tenta di impiccarsi. È un gesto improvviso, dettato dallo sconforto del momento, non premeditato; più dimostrativo che realmente autolesionista. La polizia interviene, la porta viene spaccata e Petros messo in sicurezza. L’ambulanza trasporta il ragazzo al pronto soccorso, dove viene visitato da uno psichiatra che, con l’aiuto di un’interprete, ne accerta le condizioni psichiche, le quali nonostante tutto evidenziano volontà di vivere.
Dopo poche ore Petros torna in stazione. Lo troviamo in lacrime, nel parco. Ancora una volta ci siamo, per un sostegno, per un abbraccio, un gesto di affetto. Lo accogliamo con un groppo in gola, con un misto di rabbia e tristezza verso un’Europa che ancora una volta non si dimostra all’altezza delle sue pretese di garante dei diritti e luogo delle libertà. Un’Europa che non sa essere la terra del riposo per il viaggiatore stanco, ma l’ennesimo campo minato nel quale doversi muovere con circospezione e paura.
È da un paio di giorni che non vedo più il suo sorriso tra i volti che mi circondano in stazione. Probabilmente per l’ennesima volta è salito su quel treno, o ha intrapreso la strada delle montagne, nel tentativo di concludere quel viaggio iniziato ormai molti mesi fa ad Asmara, affidandosi ancora una volta alla cieca fortuna, che prima di lui ha saputo assistere tanti suoi fratelli.
Buon viaggio caro amico, spero di non vederti tornare.